Cartoline dall’Estremo Oriente
Cartoline dal Giappone
Nelle prime cartoline col dorso unito, l’illustrazione e il messaggio dovevano coabitare nello stesso spazio, così gli illustratori pensarono a diverse soluzioni per dirimere la questione. A volte l’immagine occupa solo la metà in alto in modo che il mittente possa scrivere il messaggio in basso senza appoggiare la mano sulla cartolina e correre il rischio di sporcarla (fig. 16-17).
Vengono anche concepite delle soluzioni grafiche tipicamente “cartolinesche”: piccole immagini isolate dalle altre da un proprio riquadro e sparse in varie forme sul fondo bianco; a volte separate, a volte incastrate, a volte collegate da elementi di raccordo (fig. 18-19). Altre volte l’immagine pretende di occupare l’intera superficie, obbligando il mittente a limitarsi a brevi frasi di saluto o addirittura a vergare solo il proprio nome, o scrivere sovrapponendosi all’immagine (fig. 20-21).
Quando, a partire dal 1907, il messaggio trasloca sull’altro lato della cartolina, l’illustrazione diventa legittimamente “a tutto campo” (fig. 22-23).
Fin dall’inizio le cartoline utilizzarono sia immagini grafico-pittoriche che fotografiche, con un deciso sopravvento di queste ultime.
Queste cartoline fotografiche prendevano a modello o riproducevano direttamente la fotografia commerciale ottocentesca, ovvero le albumine in tonalità brune o colorate a mano della Yokohama Shashin, la Scuola di Yokohama, prodotte nel tardo periodo Edo e nel primo periodo Meiji. Come quella, anche la cartolina coltivava la poetica della nostalgia, sentita come un dovere morale nei confronti del proprio passato, a cui si è dovuto rinunciare per autodifesa, per aderire alla modernità occidentale, ma di cui si vuole comunque riconoscere il valore. Cosa questa che alla fine accomunava nel gusto sia i giapponesi che gli occidentali, che vedevano in quel passato la “vera immagine” del Giappone, la quintessenza dell’esotismo. Gli editori giapponesi continuarono dunque ad offrire le classiche vedute del paesaggio locale, i giardini, i templi, i native types di Felice Beato, le bijin, le belle donne, tutti motivi che appartenevano all’iconografia nazionale più antica, dell’ukiyo-e, ma che pure erano legati alla richiesta turistica (fig. 24-29).
In questo modo “la diffusione delle cartoline postali ha un duplice effetto: da una parte alimenta una forma di collezionismo locale che ha come obiettivo quello di fissare nella memoria un mondo che svanisce; dall’altra contribuisce in modo significativo a consolidare e a estendere, in Europa e negli Stati Uniti, la visione da cui traggono spunto le estetiche del Giapponismo” (Francesco Paolo Campione, Giappone all’albumina, in Ineffabile perfezione, a cura di Francesco Paolo Campione e Marco Fagioli, Giunti, Firenze-Milano, 2010, p. 35).
Quando, dopo la guerra contro la Russia del 1904-1905, la produzione di cartoline si trasformò in una prospera industria le cose cambiarono, i produttori acquisirono istantanee di un’ampia varietà di scene di tutte le città e i dintorni, ogni cosa: dagli edifici governativi ai mercati, ponti e tram, pali della luce e treni; al contrario della Yokohama Shashin, che non voleva riprodurre il moderno ma solo guardare con nostalgia il passato, nelle cartoline viene evidenziato il contemporaneo e i segni dell’imperante modernità, di un paese che stava avviandosi, dal feudalesimo, a diventare una delle prime potenze mondiali. Questa qualità di istantanea è evidenziata dal fatto che le cartoline del tardo periodo Meiji e di quello Taisho in genere fotografano persone inconsapevoli in situazioni quotidiane (fig. 30-31).
La maggior parte delle cartoline tratte da fotografie venivano stampate soprattutto con la tecnica della collotipia. La collotipia fu molto popolare in Giappone tra gli anni ’90 del XIX secolo e gli anni ’20 del XX secolo e venne preferita alla fotoincisione a causa dell’alto costo del rame necessario per quest’ultima. Era comunque un metodo laborioso e soprattutto non consentiva tirature alte, non si arrivavano a superare le 500 copie. In Giappone pioniere di questo procedimento nel 1889 fu Ogawa Kazumasa (1860-1929), che a sua volta lo aveva appreso presso l’Albertype Company, una casa editrice di cartoline di Brooklyn, New York. Sebbene fosse già in uso il procedimento della collotopia a colori (la cromocollotopia, usata dallo stesso Ogawa per i suoi famosi fiori di Brinkley nel 1897-1898), le cartoline, una volta stampate, venivano colorate a mano da una squadra di artisti che usavano i pennelli, lo stencil e i blocchi di legno, metodi che già erano stati usati fin dal XVIII secolo per le stampe ukiyo-e e poi per le albumine della Yokohama Shashin. Comparate con le vecchie fotografie professionali la loro colorazione è a volte casuale e limitata a lievi tocchi (fig. 32), altre volte invece appare esageratamente sgargiante (fig. 33).
A causa delle basse tirature, a partire dal 1910 (ma di uso comune solo dal 1918), la collotipia fu sostituita con la economica ed efficiente stampa offset, di qualità più bassa ma che permetteva tirature illimitate.
Per quanto riguarda le cartoline con immagini grafico-pittoriche, esse attingevano dalla ricchissima produzione dell’ukiyo-e e dalle illustrazioni che corredavano sia gli ehon, i libri illustrati, che le riviste che riproducevano le usanze e le tradizioni giapponesi scomparse. Le immagini venivano riprodotte con la tradizionale tecnica della cromoxilografia, la stampa giapponese a blocchi di legno con colori ad acqua e pressa manuale (fig. 34), o con quella della litografia a colori (fig. 35).
La prima pressa per la stampa litografica fu introdotta nel paese dalla Germania verso il 1860 – fino a questa data l’unica tecnica di stampa usata in Giappone era quella su blocchi di legno – e il nuovo procedimento si diffuse abbastanza rapidamente; nel 1868 Motoki Shozo, considerato il Gutenberg del Giappone, fondò a Nagasaki la Tokyo Tsukiji Type Foundry (poi nel 1872 trasferitasi a Tokyo), che fu la maggiore azienda nell’industria della stampa fino agli anni ’30 del Novecento, stampando giornali, riviste, mappe, libri, cartoline per vari editori, e persino francobolli per il Governo Cinese, in litografia, collotipia, mezzatinta e cromoxilografia; nel 1885 alcuni stampatori si riunirono nella Tokyo Litograph Union.
La cultura giapponese subì un profondo impatto con l’apertura del paese alle nazioni straniere, uno dei risultati fu il profondo interesse che molti artisti nutrirono per l’arte occidentale, con l’adozione di tecniche (come la pittura a olio su tela) e stili che caratterizzarono la pittura Yōga (letteralmente “pittura [di stile] occidentale”) del periodo Meiji (1868-1912). In particolare molti furono attratti dall’Art Nouveau, il nuovo stile occidentale che, in un curioso gioco di richiami, aveva preso in prestito molti motivi della pittura giapponese, dai raffinati disegni di Kōrin Ogata (1658-1715) al linearismo delle stampe ukiyo-e, così come delle linee sinuose e fluenti dei rami fioriti, dei fiumi, dei disegni dei kimono. Il nuovo stile venne divulgato dal pittore Asai Chu (1857-1907), il più dotato degli allievi di Antonio Fontanesi alla Kobu Bijutsu Gakko (la scuola statale d’arte di Tokyo), dopo il suo rientro in patria dall’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Molti pittori e disegnatori giapponesi videro nella cartolina l’opportunità di sperimentare il nuovo stile europeo: queste cartoline furono utilizzate da ogni settore della società giapponese per pubblicizzare i propri prodotti, e divennero una forma popolare di collezionismo d’arte; quello che stupisce in queste cartoline è proprio l’incrocio di diverse influenze culturali (fig. 36 e 37).