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This is not Korea

Immagini delle due Coree negli scatti di Alain Schroeder

Trieste, Civico Museo d’Arte Orientale
25 ottobre 2020 > 6 gennaio 2021
DSC01860

A cura di
Michela Messina, conservatore del Civico Museo d’Arte Orientale
Claudia Colecchia, responsabile della Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte
Allestimento a cura di
dotART
Marino Ierman
con la collaborazione di
Gabriella Gelovizza
Luca Moro

Grafica e stampa
StampaeStampe.it

Traduzioni
Maria Giovanna Cossa
Mara Zanette

Coordinamento amministrativo
Alessia Neri, Responsabile di P.O. Amministrazione Musei
con
Ornella Mari, Elisabetta Illich, Eleonora Venier

Si ringraziano
Maria Cristina Piccolo, Piero Stuparich
Stefano Turina, Università degli Studi di Torino

La Corea del Nord. Kim City e Taekwondo

La Corea è quasi completamente assente dalle pur ricche collezioni dei Civici Musei di Storia ed Arte. Descrivono il “paese del calmo mattino” solo due testimonianze fotografiche che sono custodite in Fototeca e, nelle collezioni del Civico Museo d’Arte Orientale, due xilografie, opera del notissimo artista giapponese Katsushika Hokusai.

Raichō no Fuji (Il Fuji e l’ambasceria straniera)

in Fugaku Hyakkei (Le cento vedute del monte Fuji), vol. III, libro illustrato (ehon)
1835 (ideazione) / 1847-1849 ca. (stampa)
xilografia
acquisto da Carlo Battistella, 24.05.1881
CMSA inv. SNR 1598

Le due xilografie di Hokusai raffigurano entrambe il corteo di un’ambasceria coreana in transito ai piedi del monte Fuji e pertengono a ehon (libri illustrati). Nel periodo Edo o Tokugawa, durante il quale vigeva il sakoku, ovvero la chiusura del Paese agli stranieri, gli artisti erano affascinati da scene di paesi esteri che conoscevano soltanto tramite la letteratura e le leggende. Gli unici stranieri che avevano l’opportunità di osservare direttamente erano coloro che formavano gli imponenti cortei ufficiali delle ambascerie coreane, olandesi o delle isole Ryūkyū, quando compivano il loro itinerario verso Edo, dove li attendevano le udienze con gli shōgun Tokugawa: centinaia di persone, vestite splendidamente e accompagnate da bande musicali, suscitavano l’entusiasmo del pubblico e l’attenzione degli artisti, che produssero sia opere d’arte su commissione nobiliare, sia un gran numero di xilografie ed opuscoli, nell’ordine delle decine di migliaia di copie, che venivano smerciate da venditori ambulanti già durante il tragitto delle ambascerie. A testimonianza dell’appeal popolare di questo tema, esso continuò a essere riproposto decine di anni dopo che l’ultima ambasceria era sparita dalla memoria vivente: infatti Hokusai aveva appena quattro anni quando l’ultima missione coreana attraversò il Giappone, nel 1764.

La stampa più antica, un foglio sciolto estrapolato dal volume Denshin gakyō (Specchio dei disegni che sgorgano dall’anima), viene per la prima volta esposta al pubblico con la sua corretta attribuzione, grazie allo studio di Stefano Turina, dottorando di ricerca in arte giapponese. L’altra incisione è compresa nel volume III del notissimo libro illustrato Fugaku Hyakkei (Le cento vedute del monte Fuji).

La fotografia più antica è una carte de visite (6×10 cm) realizzata da Wilhelm Burger (1844-1920) e fa parte del fondo donato al Comune da Maria Piacere nel 1940. Il fotografo viennese partecipa in veste di fotografo ufficiale, nel 1868, a una spedizione diplomatico commerciale che gli consente di visitare il Siam, la Cina e il Giappone. Tornerà a Vienna solo nel 1870. Il positivo immortala, durante il soggiorno nel Paese del Sol Levante, un coreano seminudo: si tratta di un tipico esempio di ritratto etnografico che ha larga diffusione negli album ottocenteschi, un genere che contribuisce alla diffusione della moda dell’esotismo e che consente di conoscere l’altro, il diverso.

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Wilhelm Burger [1844-1920]

Apprende le tecniche della pittura dal 1855 al 1860, studiando a Vienna e Monaco ma resta affascinato dall’arte della fotografia anche grazie allo zio, il fisico e fotografo Andreas von Ettingshausen. Con il conte Karl von Scherzer, appassionato di fotografia e primo ufficiale, Burger partecipa, insieme al suo assistente Michael Moser e al barone/fotografo Eugen von Ransonnet, alla K.K. Mission nach Ostasien und Südamerika: spedizione diplomatico-commerciale condotta dal contrammiraglio Petz nel lontano Oriente. Dopo un banchetto offerto dal Barone Revoltella, il 18 ottobre 1868, la fregata Danubio e la corvetta Erzherzog Friedrich salpano da Trieste e toccano i porti di Ragusa, Messina, Algeri, Gibilterra, Tangeri e Tenerife, oltrepassano l’Equatore, approdano a Città del Capo per poi proseguire alla volta di Giava, Singapore e Bangkok. Ospiti del re del Siam per un mese, nell’aprile 1869, sostano a Saigon, Hong Kong e Shangai e raggiungono il Giappone il 31 agosto 1869.
La rete relazionale fra i fotografi, in Giappone, è fitta al punto tale che Burger, arrivato a Nagasaki, nel settembre 1869, soggiorna in città per due settimane e frequenta lo studio di Ueno Hikoma (1838-1904): padre della fotografia giapponese che, dopo avere appreso le tecniche fotografiche dai maestri olandesi e da Pierre Rossier, aveva perfezionato la sua arte con il grande fotografo veneziano Felice Beato. Quando Berger lascia Nagasaki, per trasferirsi a Yokohama il 2 ottobre 1869, è ospite dell’atelier di Shimooka Renjō (1823-1914), alla cui scuola si erano formati numerosi fotografi, tra cui, Yokoyama Matsusaburō e Ogawa Kazumasa.
Rientra a Vienna nel marzo 1870.
Qui il fotografo espone il proprio lavoro in una mostra dedicata alla spedizione svoltasi nell’estate del 1870. Visto il successo, predispone uno speciale album di lusso di studi etnografici e topografici sul Siam, la Cina e il Giappone che dedica all’Imperatore Francesco Giuseppe, oggi conservato presso il Museo di Arti Applicate di Vienna. Le immagini della Cina e del Giappone sono esposte anche all’Esposizione Mondiale di Vienna. Negli anni successivi partecipa, in qualità di fotografo ufficiale, a svariate spedizioni in Artico, Asia Minore e Samotracia. Nel 1874 apre uno studio fotografico a Vienna, opera anche in Francia dove è solito firmarsi con la lettera G che sta per Guillaume, francesizzando il proprio nome.

La seconda testimonianza è una cartolina, realizzata dall’editore nipponico Kamigataya Heiwadō, probabilmente tra il 1905 e il 1907, quando la Corea era un protettorato giapponese. La foto ritrae la strada principale della città di Chemulpo, oggi Incheon, in Corea del Sud, durante i festeggiamenti per la fine della guerra russo giapponese. Si tratta di una cartolina viaggiata, spedita dal nipote Ettore alla zia Gemma Dalla Zonca di Pola. Il positivo è prodotto in Giappone dall’editore Kamigataya Heiwado di Tokyo.

Una figura umana e un luogo, dunque. I meccanismi di inclusione ed esclusione nei circuiti di consumo delle rappresentazioni fotografiche rivelano, nel caso specifico, l’assenza di contatti con la Corea che perdura, nelle nostre collezioni, sino ad oggi.

Fotografia di Marino Ierman In mostra sono esposte le attrezzature da campo tipiche del fotografo di fine Ottocento.

La spedizione in Oriente a cui partecipa Burger è dotata di un’ottima strumentazione fotografica e di una buona biblioteca grazie all’interessamento del conte Karl von Scherzer, primo ufficiale e membro della Società Fotografica di Vienna. Le fotocamere da viaggio utilizzate sono strumenti semplici, formati da una cassetta di legno (generalmente di mogano o noce) sigillata e annerita internamente, detta “camera oscura”, su cui è anteriormente assicurato un obiettivo e posteriormente applicato un telaio con un cristallo smerigliato, per ricevere e mettere a fuoco l’immagine disegnata dall’obiettivo. L’apparecchio è solitamente completato da un astuccio che può essere collocato esattamente al posto del telaio. La misura delle fotocamere dipende dalla grandezza massima delle lastre. Le fotocamere da viaggio hanno soffietti pieghevoli che alleggeriscono l’apparecchio e permettono di regolare la lunghezza della camera oscura. Burger parte dalla capitale asburgica portando con sé alcune lastre al collodio secco al tannino, processo inventato dall’inglese Charles Russel, che consentiva di conservare le lastre a lungo. La Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte conserva numerose macchine fotografiche di dimensioni, provenienza ed epoche diverse.

Fotografia di Marino Ierman.

Nell’occasione del Trieste Photo Days, edizione 2020, il fotografo Alain Schroeder, già premio URBAN 2019, offre l’opportunità di posare lo sguardo su questa regione dell’Asia attraverso tre storie. La divisione politica che caratterizza la Corea dal 1945 è restituita anche nell’allestimento proposto: a ogni stanza corrisponde una nazione e il muro divisorio rievoca quella linea di confine che coincide con il 38° parallelo.

La prima sala è dedicata alla Corea del Nord, uno degli stati più secretati al mondo. Le foto scattate a Pyongyang sono state realizzate il 9 settembre 2018, in occasione del settantesimo anniversario della creazione della Repubblica Democratica Popolare di Corea, evento eccezionalmente accessibile sia alla stampa che ai turisti.

Fotografia di Marino Ierman.

Il fotografo sceglie di recarsi in Corea per realizzare un progetto dedicato all’arte marziale coreana Taekwondo (che significa “la via del pugno e del calcio in volo”), creata nel 1955 dal generale Choi Hong-hi. Schroeder impiega circa 6 mesi per avere l’autorizzazione ad accedere nel Paese ed è obbligato a fornire precise indicazioni su cosa avrebbe fotografato. Il Taekwondo è un’arte estremamente popolare, insegnata anche a scuola, dove Schroeder ha avuto modo di fotografare dei giovani atleti, mentre gli adulti sono immortalati al Taekwondo Palace. Memorabile lo scatto che immortala simultaneamente un “tul”, una serie di tecniche offensive e difensive contro uno o più avversari virtuali, mentre in primo piano si possono notare le pile di tegole (30×30 cm) e pezzi di legno che gli atleti romperanno con mani e piedi per dimostrare il “kyo-pa”, l’arte di rompere assi, mattoni e tegole.

Durante la permanenza a Pyongyang il fotografo ha potuto effettuare diversi scatti della città del dittatore Kim Jong-un. Si tratta di una preziosa documentazione fotografica che però, come sottolinea egli stesso, non restituisce fedelmente il paese ma è condizionata dai meccanismi manipolatori dell’informazione di regime, visto che il servizio è stato effettuato sotto il rigido controllo censorio di due guide ufficiali che hanno indicato cosa guardare e cosa fotografare. Tuttavia, l’iniziazione all’odierna Corea riveste un certo interesse visivo: emerge il volto moderno del paese, testimoniato dalla presenza di grattacieli in contrasto con la sobria e monotona edilizia residenziale popolare che rievoca quella sovietica. Preponderanti sono gli scatti che descrivono le realizzazioni scenografiche finalizzate alle manifestazioni ritualistiche, necessarie per la costruzione e la preservazione della strategia delle emozioni. Le statue monumentali, i mosaici giganteschi, gli immancabili ritratti di Kim Jong-un, i grandi raduni sono la messinscena di una dittatura che mira all’infatuazione sociale.

Le foto, senza alcuna presunzione di completezza documentaria, ci forniscono un interessante affaccio su un paese “ignoto”. This is not Korea sottolinea il fotografo, ma il servizio, seguendo gli stilemi comunicativi del regime, ha il merito di restituirci la prodigiosa macchina organizzativa creata per la costruzione del consenso che, in questo caso, è per una volta desideroso di travalicare i confini nazionali.

La Corea del Sud. Grandma Divers

Fotografia di Marino Ierman.

La Corea del Sud è descritta attraverso una serie di ritratti femminili scattati presso l’isola di Jeju. Qui la pesca a immersione è praticata dalle donne Haenyeo che si tuffano senza bombole nelle acque gelide a caccia dei preziosi awabi (abaloni o orecchie di mare): frutti di mare in via di estinzione sempre più richiesti anche dagli chef stellati occidentali.

I ritratti monocromatici, perlopiù frontali, descrivono mature sommozzatrici avvolte in tute di gomma, protette da vecchi occhiali, fasciate in vita da una cintura di pesi di piombo e armate di bitchang, il gancio utilizzato per estrarre l’abalone.

Fotografia di Marino Ierman.

La cultura delle subacquee di Jeju è inclusa nel patrimonio mondiale dell’Unesco e costituisce uno dei tesori nazionali della Corea del Sud.

La presenza delle donne pescatrici è diffusa anche nel vicino Giappone. Il fascino da esse esercitato ha costituito sia una ricercata fonte iconografica per le espressioni artistiche giapponesi, come testimoniato dalla stampa conservata presso il Civico Museo d’Arte Orientale raffigurante una pescatrice di awabi, sia una costante attrattiva per gli Occidentali, infatti nel 1954 anche Fosco Maraini fotografa le pescatrici giapponesi Ama dell’isola di Hèkura (Hegurajima).

Il viaggiatore ed etnologo descrive così le sirene della pesca: Le giovani sono bellissime, agili e aggraziate, forti e sicure nell’acqua con la naturalezza di esseri che si trovano nel proprio elemento. Maraini descrive nel volume Ore giapponesi – di cui è presente in mostra la prima edizione – la presenza delle pescatrici anziane più esperte, ma documenta, attraverso la fotografia, strumento indispensabile della sua ricerca antropologica, soprattutto le più giovani.

La realizzazione delle fotografie è molto ardua perché le messe a fuoco e le inquadrature devono essere preordinate prima dell’immersione, sulla base delle condizioni ambientali e del tipo di fondali: questo spiega perché il numero complessivo di scatti non è superiore ai cinquanta.

Di grande imponenza e fascino, le fotografie in bianco e nero scattate da Maraini ritraggono le donne, vestite solo dell’indumento tradizionale, il kuroneko, mentre si immergono in mare in apnea.

Il documentario sarà proiettato per la prima volta nel 1956 a Roma, presso la Sala Gonzaga, mentre le fotografie e poi inserite nel volume, edito nel 1957, ed esposte a Roma, nel dicembre dello stesso anno, presso la libreria e galleria d’Arte “Al Ferro di Cavallo”. Nel 1960, Maraini le pubblica nel volume L’Isola delle pescatrici che avrà una grande fortuna al punto tale che Ian Fleming, profondamente affascinato, si recherà in Giappone per vedere le Ama. Lo scrittore inserirà il personaggio della pescatrice nel romanzo James Bond. Si vive solo due volte da cui sarà tratto, nel 1967, l’omonimo film.

Fotografia di Gabriella Gelovizza

In dialogo con le fotografie in mostra è esposto infine un surimono – stampa privata d’occasione – di Utagawa Kuninao (1793-1854) raffigurante una Pescatrice giapponese di awabi, che emerge dalle onde aggrappandosi a una roccia e reggendo un guscio di abalone, mentre stringe tra i denti lo stiletto usato per staccarlo dalle rocce.

Le sfumature erotiche presenti in questo surimono sono evidenti: le Ama erano oggetto di una curiosità quasi voyeuristica presso il grande pubblico e molti autori dell’ukiyo-e trattarono il tema delle Ama nelle proprie incisioni, a partire da Kitagawa Utamaro.

Sebbene fosse un lavoro femminile che durava per l’intera esistenza, le Ama erano raffigurate dagli artisti soltanto in giovane età. Essendo note per le maniere rozze e la pelle resa ruvida dal lavoro e percepite come socialmente e sessualmente libere, le Ama erano considerate l’antitesi delle geisha e delle cortigiane che erano il soggetto predominante dell’arte ukiyo-e, con i loro modi raffinati, le vesti eleganti, la cultura elevata, e le alte tariffe per i loro servigi. Utamaro e gli altri artisti hanno giocato con questi contrasti, ritraendo le Ama nelle pose eleganti e rilassate abituali nelle cortigiane, ma prive di abiti e in atteggiamenti più espliciti, giustificati dalla loro attività lavorativa: i loro corpi flessibili, energici e vigorosamente sani recavano con sé un richiamo erotico differente sia dalle algide allusioni delle geisha sia dal contenuto esplicito degli shunga.

Al contrario, i ritratti di Schroeder si discostano dalla tradizione più antica dell’Ukiyo-e che descrive pescatrici giovani, belle e flessuose e dalle foto di Maraini.

Il fotografo belga restituisce esclusivamente i volti segnati delle donne mature che, nonostante l’età, le mille rughe, si ergono in un tempo sospeso, maestose, elegantissime e ancora capaci di stupirci, persino di sedurci.

L’immersione in apnea, che può arrivare fino a 20 metri di profondità e durare fino a 2 minuti, necessita di polmoni molto forti che le pescatrici iniziano ad allenare fin da bambine Quando tornano a galla emettono un suono conosciuto come “ama isobue” (“richiamo delle sirene”) che non è altro che una specie di fischio prodotto dall’iperventilazione.

Un senso di mistero e di distanza pervade la fotografia del belga Schroeder, confermando la profonda influenza subita dal surrealismo di Magritte.

Alain Schroeder è un fotoreporter belga, nato nel 1955. Ha scoperto la fotografia giovanissimo attraverso le riviste di settore quali Photo e Zoom. Il suo lavoro è una mescolanza di fotogiornalismo, documentarismo contemporaneo, influenzato dal surrealismo, in particolare di Magritte e Delvaux.

Da oltre tre decenni lavora nel campo della fotografia, prima come fotografo sportivo nei campi del Roland Garros, Wimbledon, US Open, successivamente si è dedicato ai libri di viaggio, arte e architettura. Ha curato oltre trenta volumi dedicati a Cina, Iran, il Rinascimento, Roma antica, Giardini d’Europa, Thailandia, Toscana, Creta, Vietnam, Budapest, Venezia, Abbazie d’Europa, i siti naturali d’Europa, ecc. Ha pubblicato le sue foto in prestigiose riviste quali il National Geographic, Geo, Paris Match. Ha vinto numerosi premi internazionali tra cui un premio Nikon Japan per la serie Who Will Save the Rohingya, il premio TPOTY (fotografo di viaggio dell’anno) per due serie: Living for Death e Kushti, World Press Photo 1st Prize Sport Stories per la serie Kid Jockeys. Ha partecipato a numerose mostre in tutto il mondo. Ha fondato nel 1989 Reporters, una nota agenzia fotografica in Belgio. A Parigi è rappresentato dall’agenzia fotografica HEMIS.

Civico Museo d’Arte Orientale
via San Sebastiano, 1
dal 25.10.2020 al 06.01.2021
da giovedì a domenica, dalle ore 10.00 alle ore 17.00

ingresso gratuito

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