Fotografie di propaganda degli Americani in Estremo Oriente nel fondo USIS della Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte
Civico Museo Orientale
6 Dicembre 2017 – 3 Giugno 2018
La mostra, ideata e realizzata dai Civici Musei di Storia ed Arte, con la direzione di Laura Carlini Fanfogna, direttore del Servizio Musei e Biblioteche, è a cura di Claudia Colecchia, responsabile della Fototeca e della Biblioteca dei Civici Musei di Storia ed Arte, il conservatore del Civico Museo Orientale, Michela Messina, ha contribuito alla realizzazione.
War is over! Peace is here! Così si concludeva la telecronaca di commento alla resa del Giappone, siglata il 2 settembre 1945 dal Generale MacArthur.
La convinzione che se il mondo vede la vera immagine della guerra è indotto a terminarla più celermente, induce a fotografare con l’intento di innescare un processo di scavo nelle coscienze, onde perseguire sogni di pace. Su questo assunto si basa l’esposizione, dedicata alle fotografie originali dell’Estremo Oriente, appartenenti al fondo fotografico USIS (United States Information Service) della Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste, che offre per la prima volta al pubblico una selezione di sessanta delle mille fotografie originali della serie Giappone, realizzate tra il 1941 e il 1945, prevalentemente con fini propagandistici.
La proposta espositiva consente di leggere un intricato gioco di rappresentazioni: lo sguardo americano sull’Estremo Oriente, in cui prevale l’immagine del giapponese che lotta e soggiace al nemico, e quello del pubblico triestino del dopoguerra, a cui le fotografie sono state proposte, subito dopo la fine del conflitto, per propagandare gli ideali di vita americani. Si comprende così come l’apparato fotografico di scene belliche offra una narrazione in chiave simbolico-allusiva: una guerra psicologica che utilizza gli strumenti della propaganda per instillare nella popolazione americana un forte orgoglio nazionalista, tramite la rappresentazione del nemico come un barbaro, se non in forme addirittura demoniache.
Il percorso si snoda tra diverse icone della Seconda guerra mondiale – lo scatto a Iwo Jima di Joe Rosenthal; gli istanti della resa giapponese; l’immagine di Nagasaki rasa al suolo dalla bomba atomica – e le molte foto scattate con l’intento di narrare le forze alleate che interagiscono positivamente con i civili, persino in situazioni di ozio e di svago sullo sfondo di luoghi e paesaggi fortemente caratterizzati. Immagini che confermano, in ultima istanza, l’attenzione per l’uomo, dimostrando – come sostiene Edward Steichen, direttore dell’unità fotografica dell’aviazione navale durante la Seconda guerra mondiale, nominato nel 1947 direttore del dipartimento di fotografia del MoMA di New York – che la missione della fotografia è spiegare l’uomo all’uomo e ogni uomo a se stesso.
La serie Giappone del fondo USIS riveste un particolare interesse perché racconta la conquista del paese attraverso lo sguardo dell’invasore.
Oltre alle scene belliche, le fotografie restituiscono una guerra psicologica che utilizza gli strumenti della propaganda per instillare nella popolazione un forte orgoglio nazionalista e dipingere il nemico come barbaro se non addirittura demoniaco.
L’arte è messa a disposizione della propaganda: le immagini belliche in Estremo Oriente sono utilizzate come strumento di comunicazione piuttosto che come linguaggio di espressione personale.
La Serie si contraddistingue da altre presenti nel fondo fotografico USIS per la sua monotematicità: descrive esclusivamente la guerra fino alla capitolazione del Giappone.
Restando in Oriente, la serie India del fondo USIS testimonia l’impegno indiano nella Seconda guerra mondiale ma al contempo restituisce il mondo del lavoro, la coesistenza tra l’India rurale ed esotica con l’India urbana e moderna, i grandi templi.
Nella serie India si prediligono immagini rassicuranti, spesso costruite, che costituiscono uno strumento chiave per la narrazione della guerra.
Al contrario, nella Serie Giappone, si narra la guerra, anche con immagini cruente prodotte prevalentemente da americani e inglesi. L’archivio conserva un’unica fotografia giapponese estorta a un prigioniero: si tratta di un’immagine che descrive gli ultimi istanti dei condannati a morte inginocchiati accanto alla fossa, prima della fucilazione.
Il risultato è una guerra in bianco e nero, raccontata come guerra giusta, perseguendo sogni di pace ed esclamare finalmente: Peace is here!
Le fotografie presenti nella serie Giappone provengono soprattutto da agenzie informative americane quali l’Office of War Information (OWI), US Army Signal Corps, Navy, Coast Guard, Marine Corps.
Altre foto sono inglesi, corredate dal timbro Ministry of Information (MOI): Photograph Division e del Political Welfare Executive (PWE) che ha tra le sue competenze, oltre alla propaganda per i servizi in lingue straniere della BBC, anche la Black Propaganda, con l’elaborazione di opuscoli da lanciare oltre le linee nemiche per screditare l’avversario e la collaborazione con i militari sul fronte di battaglia.
Altre foto sono prodotte dal Psychological Warfare Section of Allied Force Headquarters composto da personale nordamericano e britannico.
L’Office of War Information (OWI) funge da collettore che smista le immagini provenienti da agenzie fotografiche pubbliche e private. A partire dal 1943, i fotografi sono più frequentemente stanziati nel Sudest del Pacifico. I giornalisti assegnati a quest’area si percepiscono come cittadini di seconda classe: la dimostrazione è data dal fatto che sono persino meno pagati di coloro che operano in Italia o in Francia e anche i fotografi di guerra in Estremo Oriente vivono la stessa frustrazione insieme ai generali americani, ritenendo di essere sul fronte meno importante.
In realtà, alcune foto di guerra scattate sul Pacifico sono considerate indimenticabili.
Persino i soldati si lamentano di essere dislocati in Oriente: gli inglesi in India spiegano al fotografo inglese Cecil Beaton che temono di essere dimenticati dalla madre patria visto che sono coinvolti in una guerra percepita lontana e poco raccontata. Si lasciano fotografare da Beaton perché tramite il mezzo visivo sperano di stabilire un contatto con i familiari e far saper loro che stanno bene.
Il fotografo sceglie il soggetto della fotografia ma non sceglie la foto da pubblicare: spesso spedisce il rullino senza neppure vedere l’esito degli scatti.
La fotografia premiata con il Premio Pulitzer di Joe Rosenthal è scattata il 23 febbraio e pubblicata sulle principali testate americane già il 25 febbraio ma solo nove giorni dopo, tornato a Guam, l’autore potrà vedere il suo capolavoro.
Le foto inviate dal fronte, dopo avere superato il controllo della censura, vengono selezionate per la pubblicazione da grandi riviste come Life e Look.
Life è il primo giornale fotografico ed è il più popolare, creato nel 1936 da Henry Luce, già editore di Time e Fortune, per raccontare l’America positiva in continua crescita.
Henry Luce fa una scelta precisa: manda i migliori fotografi a seguire le campagne nel Pacifico del generale Douglas MacArthur, al contrario della maggioranza dei giornali che mandano i migliori in Europa. Luce sfrutta il concetto di photo essay secondo cui la pubblicazione di una serie di foto corredata da didascalie avrebbe dovuto parlare da sé del fronte e sostiene che le cose accadono due volte in America: la prima volta quando accadono e una settimana dopo su Life.
Spesso Life racconta la guerra attraverso la narrazione delle vicende individuali dei soldati in modo tale da consentire al pubblico di identificarsi con un personaggio concreto.
Se durante la Prima guerra mondiale l’arte del ritocco mistifica le immagini al punto tale da renderle simili a dipinti, nella Seconda si preferisce la censura alla correzione. L’intervento sulla foto è limitato soprattutto alla cancellazione di segni e nomi dalle uniformi.
In alcuni casi i volti sono cancellati con una semplice croce bianca, come nella foto che ritrae i prigionieri giapponesi che collaborano con gli alleati.
Con il passare del tempo, il racconto della violenza in guerra aumenta: mentre nella Prima la censura incoraggia a credere che la guerra non sia così violenta, nella Seconda guerra mondiale, si utilizzano immagini cruente anche per evidenziare come gli americani in patria siano fortunati rispetto ai polacchi, ai francesi o ai britannici.
Si vuole spiegare che non si tratta di una guerra da salotto, di una happy war.
Soprattutto a partire dalla seconda metà del 1943 non si censurano le fotografie del nemico e persino quelle della morte degli alleati mentre si evitano le immagini tragiche di ragazzi americani.
Inizialmente si divulgano sulla stampa scene di morte cercando di scegliere fotografie non troppo dure che raccontino la morte altrui. L’esibizione fotografica delle morti di asiatici o africani riporta alla consuetudine giornalistica di mettere in mostra esseri umani esotici esibiti come animali allo zoo. Non c’è alcun processo di identificazione anzi, come sostiene Susan Sontag, l’altro è qualcuno da vedere non qualcuno che, come noi, vede.
Con il tempo appaiono anche scene di morte americana, i volti non si vedono intenzionalmente in modo tale che nessuno, vedendo queste foto, possa dire: “Quello è il mio ragazzo!”.
Non sempre i fotoreporter sono presenti laddove gli eventi sono determinanti per cui si assiste a una sovrarappresentazione di alcune realtà che condizionano la memoria visiva degli avvenimenti circoscrivendola a quelli di cui si dispone di documentazione fotografica.
Anche nel fondo USIS conservato in Fototeca, non sono rappresentati tutti gli eventi della guerra sul Pacifico e la qualità e quantità di notizie riguardante le singole battaglie è disomogenea.
Dallo studio del fondo si rileva che la guerra in Estremo Oriente diventa più interessante per i media soprattutto dal 1945, quando il conflitto in Europa volge alla fine. Le campagne nelle Filippine e le invasioni di Iwo Jima e Okinawa sono raccontate in modo consistente. Il generale MacArthur inoltra 60 reporter per seguire le operazioni dello sbarco nelle Filippine a Luzon.
Per l’invasione di Iwo Jima vengono inviati i giornalisti più famosi. La battaglia di Iwo Jima si svolge tra il 19 febbraio e il 26 marzo 1945, iniziata dopo la campagna nelle Isole Marshall, precede la conquista di Okinawa.
L’operazione militare per la conquista di Iwo Jima (il cui significato è isola di zolfo a causa del vulcano Suribachi che la domina) è considerata di massima importanza non solo da un punto di vista militare, visto che costituisce un’importante base aerea e navale giapponese presidiata da 20.000 soldati, ma anche psicologica perché Iwo Jima costituisce il primo avamposto giapponese dove sbarcano gli americani.
Grazie alla presenza di vari aeroporti, gli americani comprendono che possono far decollare da qui caccia e bombardieri verso il Giappone risparmiando preziose ore di volo.
L’importanza strategica dell’isola spiega perché gli americani impegnino ingenti mezzi per conquistare l’isola: circa 70.000 uomini di cui ne muoiono 6.800, mentre le perdite giapponesi ammontano a 21.925 in un mese e mezzo di combattimenti.
La rilevanza dell’operazione è confermata dalla quantità e qualità delle immagini che raccontano l’invasione, prodotte da svariate agenzie ed enti governativi tra cui OWI, Navy, Coast Guard.
Il 23 febbraio avviene la conquista del monte più alto dell’isola, il Suribachi, che costituisce il più importante presidio strategico grazie ai suoi 169 metri d’altezza.
Alcune delle foto di Iwo Jima in nostro possesso, sono conservate anche nel National Archives Catalog americano: in presenza di immagini identiche, si possono riscontrare alcune difformità nei testi riportati nelle didascalie in inglese. Ad esempio, nell’immagine F32399, la didascalia conservata nell’archivio americano segnala in modo specifico i nomi degli ufficiali in primo piano mentre nella copia della Fototeca la descrizione è più generica.
La foto di Iwo Jima è uno degli esempi più citati di manipolazione storica e propagandistica dell’immagine.
Joe Rosenthal, fotografo dell’agenzia Associated Press, è assegnato a Iwo Jima nel 1945.
Con lo scopo di documentare l’avvenuta conquista del monte Suribachi accompagna il 28. Reggimento Leatherneck con Bill Hipple, corrispondente del giornale Newsweek, e due fotografi della Marina, Bob Campbell e Bill Genaust.
Durante la salita incontra il sergente Louis Lowery, fotografo dei Marine Corps, per la rivista dei Marines, Leatherneck Magazine, che gli comunica di avere già immortalato la prima bandiera issata sulla vetta e lo invita comunque a salire in cima per godersi il panorama.
Giunto alla meta, Rosenthal cerca coloro che hanno issato la prima bandiera ma senza successo, nota però che alcuni soldati decidono di piantare una bandiera più grande rispetto alla precedente.
Scatta la foto al gruppo senza neppure guardare dentro l’obiettivo perché viene disturbato dal collega Genaust che gli chiede se, mettendosi accanto, gli dà fastidio.
A quel punto ripete la foto e poi ne scatta un’altra con una ventina di soldati che si appostano attorno alla bandiera. Questa foto di gruppo viene denominata Gung ho, una locuzione di origine cinese, popolare nell’esercito americano, usata per esprimere entusiasmo. Ne fa altre con la sua macchina fotografica personale Rolleiflex. Manda il rullino a sviluppare nella redazione militare sull’isola di Guam che la trasmette via radiofax alla redazione centrale a New York.
Dopo due giorni, riceve i complimenti da New York ma vedrà la foto solo nove giorni dopo, a Guam. Milioni di americani la vedranno pubblicata solo due giorni dopo lo scatto: domenica 25 febbraio 1945. L’impianto fortemente retorico dell’immagine la impone come icona della Seconda Guerra Mondiale mentre la vera ripresa del sergente Lowery viene dimenticata.
Riconosciuta subito come il simbolo del patriottismo americano, la fotografia diventa estremamente popolare: è l’unica ad avere vinto il Premio Pulitzer nello stesso anno in cui è stata scattata.
La foto ritrae sei militari statunitensi (cinque appartenenti allo United States Marine Corps un assistente di sanità della United States Navy) mentre issano la bandiera.
L’esemplare in nostro possesso è privo di indicazioni dell’autore, mentre in quello presente negli archivi nazionali americani il fotografo è citato.
Il 2 settembre, sul ponte della corazzata Missouri, nella Baia di Tokyo, il generale Douglas MacArthur, accompagnato dal generale Jonathan Wainwright e dal generale A. E. Percival, in rappresentanza delle potenze alleate, firma la resa con i rappresentanti giapponesi.
L’evento è connotato da elementi simbolici: si sceglie di celebrare l’evento sul ponte della corazzata Missouri perché è lo stato di provenienza del presidente Truman. La corazzata è stata varata a suo tempo dalla figlia del Presidente mentre sul ponte troneggia la bandiera che sventolava alla Casa Bianca il 7 dicembre 1941, giorno dell’attacco di Pearl Harbour. Anche la scelta della seconda bandiera non è casuale: conta 31 stelle, come all’epoca del Commodoro Matthew Perry, arrivato in Giappone due secoli prima. Oltre 200 reporters e fotografi documentano l’evento.
I due ufficiali giapponesi che firmano la resa sono il generale Umezu Yoshijirō, che rappresenta le forze armate imperiali e il diplomatico Shigemitsu Mamoru, in rappresentanza del governo imperiale. L’imperatore non partecipa alla cerimonia perché non è ritenuto responsabile della guerra.
I rappresentanti giapponesi si presentano vestiti in abito da cerimonia: cappello a cilindro, rendigote nera a coda, pantaloni a righe e scarpe di vernice nera.
L’ufficialità e l’eleganza dei giapponesi si contrappone ala semplicità delle divise dei soldati e dei generali alleati, stride il confronto tra l’esiguità del gruppo giapponese e la moltitudine dei soldati alleati.
Nel suo discorso MacArthur parlerà di libertà, tolleranza e giustizia: dirà di voler vedere il popolo giapponese liberato dalla schiavitù mentre nel frattempo 400 bombardieri B 29 e 1500 caccia sorvolano sulla cerimonia.
In soli venti minuti, si sancisce la resa incondizionata, la capitolazione delle forze armate giapponesi e l’avvento della pace.
Le foto pervenute che descrivono l’evento appartengono soprattutto ai Signal Corps.
Testo tratto dal catalogo della mostra: Peace is here! Fotografie di propaganda degli Americani in Estremo Oriente nel fondo USIS della Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte a cura di Claudia Colecchia in vendita presso i bookshop dei Musei Civici.
Costo € 15,00.