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La fotografia in Giappone tra il periodo Tokugawa e Meiji e l’arrivo dei fotografi occidentali

La fotografia: Giappone e Cina in posa
a cura di Elisa Vecchione​

La fotografia fa la sua comparsa in Giappone alla fine degli anni ’40 del XIX secolo, per mano di un mercante olandese che introdusse a Nagasaki la prima macchina per dagherrotipi, acquistata da un importatore locale, Ueno Shunojo.
In un momento in cui il paese stava vivendo la dominazione dell’ultimo Shogun, erede della dinastia Tokugawa, la fotografia riuscì a testimoniare l’ultima fase della società feudale di quegli anni; ben prima che si avviasse il processo di apertura all’occidente. Nessuna immagine di quel periodo è però giunta fino a noi.
La sua diffusione coincise, invece, con un momento di profonda trasformazione politica e sociale per il paese: con l’ingresso, nel 1853, nella baia di Edo (attuale Tokyo) delle navi americane, le così dette “navi nere”, capitanate dal Commodoro Matthew Perry.
La spedizione ottenne l’apertura di alcuni porti per gli scambi commerciali internazionali favorendo così i primi insediamenti occidentali. L’anno successivo venne ratificato il primo trattato internazionale con Stati Uniti, Russia, Gran Bretagna e Olanda. Appartengono a questo periodo le prime riprese fotografiche, tuttora esistenti del Giappone, effettuate dal fotografo americano Eliphalet Brown Junior (1816-1886) con la tecnica del dagherrotipo.
Nel 1857 un Ufficiale Sanitario della marina olandese insegnò il procedimento fotografico a Deshima, nella baia di Nagasaki. Risale a quello stesso anno la più antica immagine, conservata, realizzata da un giapponese, Ichiki Shiro.
La fotografia suscitò l’interesse dei ceti più aperti alla modernità ed economicamente più agiati. Si aprirono i primi studi fotografici di proprietà di giapponesi. Nel 1862, quando si diffuse la tecnica al collodio umido, aprirono studi per ritratti Ueno Hikoma (1838-1904) a Nagasaki e Shimooka Renjō (1823-1914) a Yokohama.
La maggior parte delle persone che si faceva fotografare erano visitatori stranieri; essi acquistavano anche gli album fotografici che, assieme alle singole fotografie e alle cartoline illustrate, contribuivano a testimoniare l’esperienza del viaggio.
I temi trattati erano ripresi direttamente dalla tradizione pittorica antica dell’ukiyo-e: le stampe giapponesi realizzate con matrici di legno intagliate tante quanti erano i colori da riprodurre. L’Europa conobbe per la prima volta le “immagini del mondo fluttuante” (ukiyo-e, appunto) in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1855. Hokusai, Hiroshige, Utamaro, Kunisada e Eisen furono i maggiori esponenti di questa corrente artistica. La rappresentazione bidimensionale, l’assenza dei chiaroscuri, il dinamismo espresso attraverso la sinuosità delle linee e soprattutto il taglio fotografico furono elementi ai quali anche l’Art Nuveau si ispirò.
La fotografia riprese, invece, alcune delle tematiche adattandole alle proprie esigenze. Esse risultano riconducibili a due generi: l’uno documentario-paesaggistico, rappresentato sempre da un punto di vista del viaggiatore che osserva e scopre nuovi luoghi e l’altro raffigurante soggetti e scene di vita quotidiana, la così detta mise en scène.
Questa categorizzazione tematica appare anche nella pubblicazione del 1868 di un importante fotografo: Felice Beato (1834-1907 ca.), uno dei primi europei ad operare in Asia Orientale e ad offrire, come vedremo, un importante contributo per lo sviluppo e la crescita della fotografia in Giappone. L’opera, suddivisa in due parti, riproduce nella prima le Views of Japan (Vedute del Giappone), immagini di paesaggi, villaggi e città e nella la seconda i così detti Native Types (Tipi Nativi), ritratti e rappresentazioni di soggetti appartenenti a differenti stati sociali.
Il Giappone veniva raffigurato attraverso paesaggi pittoreschi, fanciulle in kimono e samurai e rimaneva ancorato ad un epoca che nella realtà stava superando quella fase storica. I soggetti venivano ritratti con i costumi della tradizione, per soddisfare e perpetuare un’idea, per lo più retorica, che l’occidente voleva farsi e si era fatto di questi luoghi.
Sia i fotografi giapponesi che quelli occidentali manifestarono un approccio nostalgico verso un Giappone che stava scomparendo; ma mentre i fotografi locali realizzarono immagini realistiche evitando la mise en scène, gli europei si specializzarono nella creazione di album-souvenir che riproponevano le tappe obbligate del viaggiatore straniero che osserva i paesaggi, apprezza le architetture ed entra in contatto con la vita quotidiana, fatta di tradizioni e di curiosità, sapientemente ricostruita in studio.
La collaborazione che si ebbe tra fotografi locali e stranieri fu fondamentale. L’occidentale mise di suo per lo più la tecnica e il gusto rinascimentale della composizione. Il soggetto veniva ritratto a figura intera, in pose statiche, e raramente interagiva con il fotografo guardando l’obbiettivo. Il risultato doveva essere la rappresentazione di un soggetto-oggetto, di un tipo. Ed ecco allora che appare, in studio, la donna giapponese,  impegnata in qualche mansione domestica o nell’atto di filare la seta o silenziosa protagonista di un antico rituale: la cerimonia del thè. La finzione raggiunge il suo culmine se si considera che gli stessi soggetti ritratti erano degli attori, assoldati per interpretare quei ruoli.
Anche i fotografi locali influenzarono lo stile della composizione con elementi dalla tradizione iconografica antica e dalla composizione ideografica, attuando, infatti, come vedremo, una relazione tra la forma degli ideogrammi e la disposizione degli elementi all’interno delle cornice fotografica.
L’esotismo estetizzante, di questo periodo, creato da e per gli occidentali, riuscì in questo modo, a delineare degli stereotipi sulla cultura giapponese, che, in parte, ancora oggi sopravvivono.
L’industria giapponese, in quel periodo, non era attrezzata per la produzione e il materiale veniva importato quasi esclusivamente dall’estero. La singola fotografia costava, in proporzione, un decimo dello stipendio mensile di un operaio, fattore che rendeva proibitivo il loro acquisto alla maggior parte dei giapponesi.
All’estero, invece, godevano di un mercato fiorente alimentato da quella sorta di “febbre” chiamata giapponismo che l’Europa di fine XIX secolo stava vivendo. L’ingente richiesta di questi oggetti portò ad una proliferazione di studi fotografici. E’ il caso del già citato Felice Beato che, avendo intuito le grandi potenzialità di un paese ancora sconosciuto agli occhi degli occidentali, aprì nel 1863, un atelier a Yokohama, in società col fotografo inglese Charles Wirgman e si specializzò nella fotografia per turisti. Introdusse  la    tecnica  della   coloritura   fotografica, che caratterizzò la maggior parte della produzione iconografia di quegli anni e che fu elemento distintivo della Yokohama Shashin, la Scuola di Yokohama; ulteriore raccordo tra la tradizione pittorica antica e la moderna arte fotografica. Decine di migliaia di artisti vennero impiegati a lavorare negli studi fotografici. Venivano utilizzate terre e succhi di radici. Il tempo impiegato per colorare un’immagine poteva variare dalle 8 alle 30 ore. La fotografia veniva sezionata: le parti più difficili venivano eseguite dai maestri, mentre pittori più giovani si dedicavano alle campiture.
L’unica albumina colorata a mano presente nelle collezioni della Fototeca appartiene però al nucleo di immagini realizzate dal fotografo di viaggio Wilhelm J. Burger (1844-1920) a cui si rimanda per maggiori approfondimenti. Il riferimento al lavoro di Felice Beato serve per capire, attraverso le vicende del suo archivio, il sincretismo che operava, in quegli anni, tra professionisti locali e fotografi stranieri.
Il suo studio, con tutto il materiale fotografico, venne acquistato dal barone austriaco Raimund Von Stillfried (1839-1911). Egli continuò ad utilizzare questo materiale per le vendite, apportando delle modifiche e ottenendo risultati che spesso superavano la qualità degli originali. Nel 1885, studio e archivio, vennero acquistati dal vicentino Adolfo Farsari (1841-1898), che integrò la produzione precedente con i propri lavori.
Nel 1886 lo studio venne distrutto da un incendio ma Fasari riuscì, in parte, a ricostruire l’archivio raccogliendo copie del materiale disseminato in tutto il Giappone. Passò, infine, nelle mani di Kusakabe Kimbei (1841-1934), che aveva lavorato sia con Beato che con Von Stillfried assorbendo le influenze di entrambi.
Anche il fotografo giapponese, Usui Shuzaburo, apprese la tecnica fotografica da Shimooka Renjō nel 1867 e continuò il suo apprendistato con un fotografo straniero, l’americano John Douglas.
I vari passaggi, che questi materiali subirono, rendono difficile l’attribuzione di una paternità certa alle singole immagini. Inoltre, come già anticipato, i fotografi giapponesi indicavano il proprio nome sull’album e le fotografie, tramandate poi nel tempo in forma sciolta, hanno perso i riferimenti biografici e appaiono per questo, per la maggior parte, anonime. I fotografi occidentali, al contrario, erano soliti apporre l’impronta del timbro dello studio fotografico, su ogni singola immagine. Per questo, le sole autografe sono un’albumina formato catre de visite del francese Numa Blanc e tre albumine stereoscopiche della ditta americana Underwood & Underwood Publishers New York. I negativi venivano, poi, scambiati, tra un atelier e l’altro, a seconda delle esigenze e delle richieste del mercato, e la necessità di segnalare, da parte del fotografo, la propria responsabilità intellettuale dell’oggetto veniva, anche per questo, meno. Neppure la presenza del nome dell’autore garantisce a volte il reale riferimento all’esecutore dello scatto e così il gioco si complica.

Con l’insediamento, nel 1868, dell’imperatore Meiji, il Giappone si avviò a diventare uno stato moderno. La restaurazione imperiale e il giuramento dell’imperatore di promulgare in futuro la costituzione furono gli atti formali di avvio di un processo riformatore dall’alto che accompagnò il Giappone nel rapido passaggio da paese semifeudale a paese industrializzato.
La fotografia venne utilizzata per documentare le guerre intestine che ancora imperversavano nel paese. Nel 1877 Ueno Hikoma    documentò    la ribellione,    scatenata dal samurai Saigo Takamori, contro il neonato governo e nel 1894 Ogura Keji riprese il conflitto cino-giapponese.
Il 30 ottobre del 1890 entrò anche nelle scuole, con un Rescritto Imperiale sull’educazione, che impose l’esibizione del ritratto dell’Imperatore Meiji, realizzato nel 1873 dal fotografo Uchida Kuichi (1844-1875).
In quegli anni esistevano già molti studi fotografici in tutte le grandi città giapponesi.
Alcuni di questi ebbero uno sviluppo industriale, come quello di Tamamura Kozaburo (Edo, 1856-?) che aprì uno studio a Yokohama nel 1883 e un altro a Kobe nel 1899 e si specializzò in album di vedute e costumi per turisti facoltosi.
Il numero dei fotografi dilettanti andava crescendo e la fotografia cominciava a diffondersi nel paese anche mezzo stampa.
Nel 1889 nacque la rivista Shashin Shimpo (Notizie fotografiche) e il circolo Nihon Shashinkai (Club della fotografia Giapponese). Nel 1894 apparve sul mercato il mensile di fotografia Shashin Geppo dedicato soprattutto alla fotografia artistica e al pittorealismo. Nel 1901 venne fondato il Tokyo Shayukai (Gruppo fotografico di Tokyo). I fotografi pittorealisti occidentali e gli stessi pittori impressionisti influenzarono ed ispirarono i fotografi giapponesi e viceversa. Nel 1904 nacque la rivista Yutsuzu-sha. Sorsero gruppi fotografici e gruppi di ricerca nei quali si discuteva e si sperimentavano i nuovi canoni della fotografia.
Superata questa fase, la fotografia giapponese sviluppò un linguaggio autonomo mediato anche dall’iniziale dialogo con i fotografi occidentali.

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